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Nuova Sabatini: riapertura dei termini

Con il decreto direttoriale dello scorso 22 dicembre, n. 7814, il Ministero dello sviluppo economico informa che a partire dal 2 gennaio 2017 riapre lo sportello per la presentazione delle domande di accesso ai contributi, a valere sullo strumento agevolativo “Nuova Sabatini”, concessi a fronte di finanziamenti bancari quinquennali per l’acquisto di macchinari, impianti e  attrezzature.

Ricordiamo che lo strumento agevolativo, definito in breve “Beni strumentali – Nuova Sabatini”, istituito dal decreto legge del Fare (articolo 2 D.L. 69/2013), è finalizzato ad accrescere la competitività del sistema produttivo del Paese e migliorare l’accesso al credito delle micro, piccole e medie imprese (PMI) per l’acquisto di nuovi macchinari, impianti e attrezzature.

A causa dell’esaurimento delle risorse finanziarie disponibili, con il decreto del direttore generale per gli incentivi alle imprese n. 5434 del 2 settembre 2016, era stata disposta, a partire dal 3 settembre 2016, la chiusura dello sportello per la presentazione delle domande di accesso ai contributi.

Successivamente, con la L. 232/2016 (legge di Bilancio 2017) è stato prorogato al 31 dicembre 2018 il termine per la concessione dei finanziamenti per l’acquisto di nuovi macchinari, impianti e attrezzature da parte delle piccole e medie imprese.

Conseguentemente, il plafond di Cdp è stato incrementato fino a 7 miliardi di euro e sono stati stanziati ulteriori 560 milioni di euro, relativamente agli anni 2017-2023, per la corresponsione dei contributi a favore delle PMI.

La Sabatini è un finanziamento agevolato che consente alle PMI di acquistare nuovi macchinari, da 20mila a 2 milioni di euro, con un contributo statale del Ministero dello sviluppo economico che copre parte degli interessi (pari all’ammontare degli interessi calcolati su un piano di ammortamento a rate semestrali, con tasso del 2,75% e durata 5 anni) e fino all’80% del finanziamento della cassa Depositi e Prestiti. I finanziamenti sono concessi a PMI (escluse quelle del settore finanziario), con sede operativa in Italia, iscritte la Registro delle imprese, nel pieno esercizio dei propri diritti, non destinatarie di aiuti europei e non in situazione di impresa in difficoltà.

Ecco le novità introdotte dalla legge di Stabilità 2017:

  • il termine per la concessione dei finanziamenti, che prima era fissato al 31 dicembre 2016, viene prorogato alla fine del 2018;
  • una quota pari al 20% viene riservata alle PMI che investono in “macchinari, impianti e attrezzature nuovi di fabbrica aventi come finalità la realizzazione di investimenti in tecnologie, compresi gli investimenti in big data, cloud computing, banda ultralarga, cybersecurity, robotica avanzata e meccatronica, realtà aumentata, manifattura 4D, Radio frequency identification (RFID) e sistemi di tracciamento e pesatura dei rifiuti”;
  • per questi investimenti, è anche innalzata del 30% la misura massima prevista per il contributo del MiSE, sempre nel rispetto della normativa europea sugli aiuti di stato;
  • il plafond a disposizione della Cdp per la Garanzia è incrementato di 7 miliardi di euro.

Infatti, le risorse previste per i prossimi anni dalla manovra sono: 28 milioni di euro per il 2017, 84 milioni per il 2018, 112 milioni all’anno dal 2019 al 2021, 84 milioni per il 2022, e 28 milioni per il 2023.

In sostanza, si proroga uno strumento che ha funzionato per stimolare gli investimenti delle imprese che hanno utilizzato tutte le risorse disponibili previste in questi anni, privilegiando come detto gli investimenti nel digitale. La normativa relativa all’accesso ai finanziamenti, ai requisiti delle imprese, nonché alla presentazione delle domande, resta invariata.

Con specifico provvedimento del direttore generale del Ministero dello sviluppo economico saranno definiti termini e modalità di presentazione delle domande di agevolazione con cui è possibile accedere alla maggiorazione del contributo a valere sulla riserva del 20% delle risorse stanziate dalla legge di Bilancio 2017. Le domande presentate dalle imprese alle banche o agli intermediari finanziari in data anteriore al 3 settembre 2016 e non inserite nella precedente richiesta di prenotazione già inviata, saranno inserite a far data da gennaio 2017.

Le domande di finanziamento devono essere compilate dalle imprese utilizzando, solo ed esclusivamente, il modulo disponibile sul sito internet del MiSE nella Sezione Beni Strumentali – Sabatini. La domanda deve contenere in allegato l’intera documentazione a pena di inammissibilità e decadenza al contributo. Ai fini della presentazione della domanda, l’impresa può dare procura speciale ad un soggetto terzo per la sottoscrizione della stessa con firma digitale.

Fonte Euroconference 29/12/2016

 

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Nuovamente rivalutabili le partecipazioni e i terreni

Con la legge di Stabilità 2017 viene prevista la riapertura, per la quattordicesima volta, dei termini per rideterminare il valore dei terreni a destinazione agricola ed edificatoria e delle partecipazioni in società non quotate posseduti da persone fisiche al di fuori dell’attività di impresa, società semplici, società ed enti ad esse equiparate di cui all’articolo 5 del Tuir, enti non commerciali per i beni che non rientrano nell’esercizio di impresa commerciale e soggetti non residenti senza stabile organizzazione in Italia.

Un soggetto che possiede un terreno o una partecipazione potrebbe avere convenienza a utilizzare l’opportunità offerta dalla legge di Stabilità, nell’intento di conseguire un legittimo risparmio fiscale in vista della cessione di una di tali attività.

Infatti, è possibile affrancare le plusvalenze latenti nei valori di questi beni, corrispondendo un’imposta sostitutiva di quella ordinaria, così generando un carico tributario anche ridotto rispetto a quello che si avrebbe vendendo il terreno o la partecipazione non rivalutati.

Anche in questa riapertura della rivalutazione viene confermata l’unica misura dell’8% con riferimento all’aliquota dell’imposta sostitutiva prevista sia per i terreni che per le partecipazioni, qualificate e non (è doveroso ricordare che in passato il costo della rivalutazione per le partecipazioni era differenziato e ben più vantaggioso in quanto era prevista una aliquota del 2% per le partecipazioni non qualificate e del 4% per le partecipazioni qualificate).

Alla luce del continuo susseguirsi dei provvedimenti di riapertura della rivalutazione, è frequente il caso di soggetti che abbiano operato una prima rivalutazione, e si trovino poi nella condizione di rivalutare nuovamente, poiché in questo intervallo di tempo non essendo intervenuta la vendita, il valore del terreno o della partecipazione si è modificato.

In proposito l’articolo 7, comma 2, del D.L. 70/2011 ha introdotto, al fine di risolvere il vasto contenzioso che si era venuto a creare in passato, una norma che andasse a regolare i rapporti con le eventuali precedenti rivalutazioni.

L’Amministrazione finanziaria aveva in passato sempre posto queste regole:

  • con la successiva rivalutazione si libera una nuova imposta che deve essere versata in via autonoma;
  • quella versata in precedenza non può essere compensata ma può essere chiesta a rimborso, eventualmente sospendendo il versamento della rata in corso.

In considerazione di tale impostazione si era andato a determinare un corposo contenzioso in merito alle tempistiche per la richiesta a rimborso. Il soggetto che ha, quindi, già rivalutato e intende usufruire della rivalutazione al 1° gennaio 2017 potrà alternativamente:

  • scomputare dall’imposta dovuta per la nuova rivalutazione quanto versato per la precedente;
  • versare l’imposta dovuta sulla nuova rivalutazione e chiedere a rimborso quanto versato per la precedente.

Pur in assenza di uno specifico richiamo al citato articolo 7, comma 2, del D.L. 70/2011, assente peraltro anche nella disciplina recata dalle quattro precedenti leggi di rivalutazione (leggi di Stabilità 2013, 2014, 2015 e 2016), si ritiene che tale norma – in quanto a regime – sia da ritenersi applicabile anche alla nuova riapertura dei termini. Tale opportunità ricordiamo vale sia per la rideterminazione del valore dei terreni che delle partecipazioni.

In conclusione si ricorda che in tema di rivalutazione delle aree e delle partecipazioni detenute da soggetti non imprenditori si è pronunciata nel corso del 2016 la Corte di Cassazione (con la sentenza n. 13406/2016) per affermare il principio secondo cui tale operazione non ammette ripensamenti. In particolare i giudici di legittimità hanno ritenuto che in presenza di pagamento dell’imposta sostitutiva (in caso di pagamento rateale, della prima rata) non sia possibile accedere ad alcuna forma di rimborso della somma precedentemente versata qualora si determini una situazione per la quale non si rende più possibile “godere” dell’affrancamento (ad esempio perché i prezzi si sono nel frattempo ridotti o, come nel caso della sentenza citata, perché nel frattempo è intervenuto un trasferimento per successione del bene in precedenza rivalutato).

Fonte Euroconference 29/12/2016

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Ricerca e sviluppo da spesare nel 2016

 

L’avvicinarsi della fine dell’esercizio richiede da parte degli amministratori delle società una seria e puntuale valutazione delle novità contenute nel D.Lgs. 139/2015 il cui impatto riguarda non solo la chiusura dei conti riferiti all’esercizio 2016, bensì anche la riapertura degli stessi all’inizio del 2016. In particolare ci si riferisce al nuovo contenuto dello schema di stato patrimoniale e segnatamente alla voce B.2 dell’attivo secondo cui tra le immobilizzazioni immateriali possono essere iscritti solamente i costi di sviluppo, mentre fino all’esercizio 2015 erano capitalizzabili anche le spese per la ricerca (applicata) e per la pubblicità aventi carattere pluriennale. A partire dal 2016, quindi, i costi sostenuti per la ricerca e la pubblicità, anche se suscettibili di avere un’utilità pluriennale, devono essere spesati per intero nell’esercizio di sostenimento. Tale novità non contiene una regola transitoria per le spese sostenute negli esercizi precedenti ed in corso di ammortamento alla data del 1° gennaio 2016, ragion per cui sarà necessario “eliminare” i costi residui iscritti tra le immobilizzazioni immateriali. Tuttavia, prima di capire la sorte di tali costi, è necessario ricordare che il “nuovo” articolo 2426, comma 1, n. 5, del codice civile, stabilisce quanto segue:

  • i costi iscrivibili nell’attivo dello stato patrimoniale, previo consenso del collegio sindacale ove esistente, sono solo quelli di impianto ed ampliamento, nonché quelli di sviluppo;
  • i costi di impianto ed ampliamento devono essere ammortizzati entro un periodo non superiore a cinque anni;
  • i costi di sviluppo sono ammortizzati secondo la loro vita utile (se non stimabile l’ammortamento non può eccedere il periodi di cinque anni);
  • durante il periodo di ammortamento dei predetti costi non possono essere distribuiti dividendi a meno che non residuino riserve disponibili sufficienti a coprire l’ammontare dei costi non ammortizzati.

Nella bozza di OIC 24 in corso di approvazione sono contenute importanti precisazioni riguardanti la novità normativa in questione, in primo luogo per quel che riguarda le spese di pubblicità e quelle di ricerca sostenute fino al 2015. Per tali costi, infatti, si prevede la possibilità di farli “transitare” rispettivamente tra i costi di impianto ed ampliamento, ovvero tra quelli di sviluppo, laddove soddisfino i requisiti stabiliti dallo stesso OIC 24 nella versione già aggiornata nel 2014. Si tratta, ad esempio per i costi di pubblicità, di spese sostenute per il lancio di una nuova attività produttiva o per l’avvio di un nuovo processo produttivo diverso da quelli già esistenti, ovvero per i costi di ricerca applicata che possono essere considerati dei costi di sviluppo (rinviando in tal senso alle definizioni contenute nello stesso documento OIC 24 secondo cui deve trattarsi di spese identificabili e misurabili sostenute in relazione ad un prodotto o processo definito e realizzabile anche in funzione delle risorse di cui dispone la società). Per quanto riguarda invece i costi di ricerca e pubblicità sostenuti in esercizi precedenti, ma che non possono essere “riclassificati” tra quelli di sviluppo o di impianto ed ampliamento, la bozza di OIC 24 ritiene di dover applicare le regole contenute nel documento OIC 29 ossia con impatto retroattivo tramite utilizzo del patrimonio netto.

Fonte Euroconference Edizione di lunedì 21 novembre 2016

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L’attività di B&B con la partita Iva

Come già messo in evidenza in altri interventi, il bed and breakfast (B&B) è un’attività ricettiva di tipo extralberghiero che offre un servizio di alloggio e prima colazione per un numero limitato di camere e/o posti letto utilizzando parti dell’abitazione privata del proprietario, con periodi di apertura annuale o stagionale.

Dal punto di vista fiscale, a seconda delle modalità di esercizio dell’attività di B&B, si possono verificare le seguenti ipotesi:

  • il conseguimento di un reddito di natura diversa, ex articolo 67 D.P.R. 917/1986;
  • o il conseguimento di un reddito di natura d’impresa, ex articolo 55 D.P.R. 917/1986.

Naturalmente, il conseguimento di un reddito di natura diversa, ex articolo 67 D.P.R. 917/1986, presuppone l’esercizio di un’attività d’impresa di natura commerciale occasionale.

Nel caso in cui non sussistano i presupposti per l’esercizio di un’attività d’impresa occasionale

– a condizione naturalmente che la normativa regionale lo consenta – la gestione di un B&B richiede necessariamente l’apertura della partita Iva. Tale circostanza, come messo in evidenza nella tabella che segue, si manifesta in tutte quelle ipotesi in cui l’attività d’impresa è svolta in modo continuativo e “professionale”.

La presenza di un’attività economica (come, nel caso di specie, la fornitura di alloggio e prima colazione in modo sistematico e “professionale”, dietro corrispettivo) è idonea a produrre effetti sia ai fini Iva che delle imposte dirette. A tal proposito è utile ricordare il contenuto del comma 1 dell’articolo 4 del D.P.R. 633/1972, secondo cui per esercizio d’impresa si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli articolo 2135 e 2195 del codice civile.

Posto che nel caso di specie si è in presenza di un’attività commerciale di cui all’articolo 2195 del codice civile, per configurare un’organizzazione in forma d’impresa – e quindi l’inclusione nel concetto di svolgimento di attività impresa commerciale “professionale” – è necessario che il soggetto agente non si limiti a prestare determinati servizi, ma svolga a proprio rischio un’attività di organizzazione di mezzi e persone finalizzata alla prestazione medesima.

A tal proposito l’Agenzia delle Entrate con la risoluzione 180/E/2000 ha affermato – ai fini Iva, ma il concetto è valido anche ai fini delle imposte dirette – che “il presupposto soggettivo di imponibilità all’Iva sussiste qualora le prestazioni di servizi siano non occasionali, cioè rientranti in un’attività esercitata per professione abituale, e (omissis) il carattere saltuario della attività di fornitura di “alloggio e prima colazione” si identifica con quello dell’occasionalità; ne consegue, in via generale, che l’esclusione dal campo di applicazione dell’Iva può affermarsi solo se l’attività viene esercitata non in modo sistematico o con carattere di stabilità e senza quella organizzazione  di mezzi che è indice di professionalità dell’esercizio dell’attività stessa”.

Attività occasionale Attività d’impresa

Affitto occasionale delle stanze (non massivo)

Avere altre attività con redditi (lavoro dipendente, attività professionale etc.)

Destinazione dell’immobile principalmente alle esigenze abitative del titolare o dei suoi familiari

Utilizzo dei familiari per erogare servizi agli ospiti (rifacimento stanze, pulizia colazioni etc.)

Nessuna o minima offerta di servizi aggiuntivi

Nessuna o minima pubblicità periodica e ricorrente

Esercizio abituale ed esclusivo con elevato ricambio degli ospiti

Non avere altre e diverse attività “prevalenti” (lavoro dipendente, libero professionale, ecc.)

Destinazione dell’immobile principalmente alle esigenze abitative degli ospiti

Utilizzo di uno o più collaboratori per erogare servizi agli ospiti

Offerta di servizi aggiuntivi rispetto a quelli minimi previsti (noleggio bici e/o attrezzature sportive, interpretariato,

convenzioni piscine, biglietti ecc.)

Elevata pubblicità periodica e ricorrente (su riviste, periodici, Internet)

Naturalmente, come affermato dall’Amministrazione finanziaria, questi rappresentano degli elementi indicatori dell’esercizio di un’attività d’impresa “professionale”, in quanto ogni situazione deve essere valutata oggettivamente.

Al verificarsi di questi elementi sarà obbligatorio aprire la partita Iva, il che comporterà anche aprire una PEC (posta elettronica certificata) per i rapporti con le istituzioni, iscriversi al Registro imprese tenuto dalla Camera di Commercio e all’Inps per il pagamento dei contributi obbligatori dei commercianti ai fondi pensionistici.

Fonte Euroconference Edizione di lunedì 21 novembre 2016

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Responsabilità delle SdP per i crediti particolari del socio

La conclusione delle operazioni di assegnazione e trasformazione agevolata avvenuta lo scorso 30 settembre 2016, anche alla luce della probabile riapertura contenuta nel disegno di legge Stabilità 2017, attualmente in corso di discussione in Parlamento, induce a riflettere su quelle che sono le conseguenze che si producono o si sono prodotte in capo alla società e ai soci per effetto delle predette operazioni.

È proprio con riferimento ai modelli di società personali che si pongono delicati temi che attengono ai profili di responsabilità dei soci e della società rispetto ai creditori, con soluzioni che appaiono diverse in ragione delle singole fattispecie societarie. Tralasciando i profili di responsabilità del socio per le obbligazioni sociali, nel presente contributo cercheremo invece di analizzare la posizione della società rispetto al creditore particolare del socio, considerando i diversi disposti normativi che risultano applicabili alle società in nome collettivo (e, per rimando, alle società in accomandita semplice), rispetto al modello della società semplice.

Sul punto è opinione comune che le società in nome collettivo e quelle in accomandita semplice siano maggiormente tutelate dalle pretese patrimoniali del creditore particolare del socio, rispetto alla società semplice; se ciò venisse confermato dalle successive analisi che effettueremo, emergerebbe certamente un deterrente alla trasformazione agevolata, e, nei casi in cui la stessa fosse già stata eseguita, si potrebbe presentare un problema.

Analizziamo, pertanto, il caso di un socio che detenga debiti personali, ed il suo creditore tenti di ottenere il soddisfacimento del credito rivalendosi sulla partecipazione in società e quindi chiedendo la liquidazione della quota. Quali sono in questo caso le azioni che la società può attivare per reagire a questa situazione che certamente la metterebbe in difficoltà? Se analizziamo la disposizione contenuta nell’articolo 2270, rientrante nel capo II del codice civile dedicato alla società semplice, emerge che il creditore particolare del socio di società semplice detiene un’ampia gamma di possibilità, riassumibili in tre opzioni:

  1. può far valere i suoi diritti sugli utili spettanti al socio debitore;
  2. può eseguire atti conservativi sulla quota spettante al socio debitore in caso di liquidazione;
  3. nel caso in cui i beni personali del socio siano insufficienti a saldare il debito, può chiedere la liquidazione della quota del socio debitore.

Si osserva in proposito che le tre opzioni sopra richiamate non prevedono, a differenza di quanto accade nelle società a responsabilità limitata, ai sensi dell’articolo 2471 del codice civile, l’espropriazione della partecipazione, poiché ciò costituirebbe un elemento di destabilizzazione della compagine societaria che il legislatore civile ha inteso evitare in un modello societario di persone per definizione “chiuso”, in cui la modifica al contratto sociale originario avviene solo con il consenso unanime dei soci.

Il creditore particolare del socio di società semplice può, tuttavia, ottenere, secondo quanto previsto in precedenza, la liquidazione della quota da parte della società, il che può certamente mettere in difficoltà la società stessa nel caso in cui (come spesso accade) essa non detenga le risorse finanziarie sufficienti.

Differenti appaiono le regole che disciplinano tale fenomeno nelle società in nome collettivo e in accomandita semplice. L’analoga previsione contenuta nell’articolo 2305 del codice civile  stabilisce, infatti, che il creditore particolare del socio non può chiedere la liquidazione della quota finché dura la società e ciò parrebbe costituire, da un lato, un ostacolo non superabile da parte del creditore e, dall’altro, una marcata differenza con quanto previsto a proposito del socio della società semplice.

Tale differenza, tuttavia, non deve essere troppo enfatizzata atteso che la giurisprudenza di legittimità ha in taluni casi riconosciuto, in deroga alle previsioni sopra descritte, il diritto del creditore particolare del socio ad eseguire l’espropriazione forzata della quota di partecipazione, legittimando, quindi, in estrema ratio, l’inserimento del creditore particolare del socio nella compagine societaria contro la volontà degli altri soci. Tale assunto è stato affermato in passato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 15605 del 7 novembre 2002, nei casi in cui lo statuto sociale abbia previsto una clausola di possibile trasferimento della partecipazione sociale, seppur limitato dal diritto di prelazione. Il ragionamento che sta alla base della citata pronuncia della Suprema Corte può essere riassunto in questi termini: poiché i soci nella loro autonomia pressoché assoluta di scrivere i patti sociali, hanno ritenuto non così essenziale la “blindatura” della compagine sociale, tanto che hanno previsto una clausola di libera circolazione delle partecipazioni, allora non ha senso applicare l’articolo 2305 del codice civile che proprio intende tutelare la “impenetrabilità” dall’esterno della compagine sociale.

Nella pratica, pertanto, la giurisprudenza di legittimità ammette che le partecipazioni in società in nome collettivo e accomandita semplice (e, quindi, a maggior ragione, delle società semplici) sono espropriabili dal creditore particolare del socio, nel caso in cui lo statuto sociale preveda la trasferibilità delle quote.

Detto questo, la soluzione per evitare tutto ciò risulta evidente: sarebbe sufficiente stabilire nello statuto l’impossibilità di circolazione delle quote, senonché una siffatta clausola statutaria risulterebbe di difficile accettazione da parte dei soci fondatori, in quanto eccessivamente vincolante.

In definitiva, per quanto attiene ai profili di responsabilità della società con riferimento alle obbligazioni personali del socio, nella maggior parte dei casi (ovvero quando non si decida per l’inclusione di una clausola che preveda l’intrasferibilità delle quote di S.n.c. e S.a.s.), il modello di società semplice appare certamente penalizzante, ma non tanto di più rispetto alle società in nome collettivo o in accomandita semplice.

In conclusione, pertanto, è possibile affermare che il creditore particolare non può in generale espropriare né richiedere la liquidazione in denaro della quota del socio debitore finché dura la vita della società. Tale previsione normativa contenuta nell’articolo 2305 del codice civile si applica certamente alle S.n.c. e alle S.a.s., ma occorre anche considerare che, secondo un indirizzo della Corte di Cassazione, se la società ha inserito nello statuto una clausola che rende possibile circolazione delle quote (clausola molto frequente), allora essa non è più tutelata nei confronti del creditore particolare, il quale potrebbe agire per chiedere alla società di liquidare la quota del socio debitore riducendo il capitale sociale. Per le società semplici, invece, il creditore particolare del socio può sempre agire a danno della società.

 

Fonte Euroconference Edizione di martedì 15 novembre 2016

 

 

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Voce C.15 del conto economico: i proventi da partecipazioni

Nell’ambito dell’area finanziaria del conto economico alla voce C.15) Proventi da partecipazioni vanno indicati tutti i proventi rilevati per competenza derivanti da partecipazioni in società, joint venture, consorzi, iscritte sia nelle immobilizzazioni finanziarie che nell’attivo circolante.

La voce va scomposta per evidenziare la separata indicazione dei proventi da partecipazione derivanti da:

  • imprese controllate;
  • imprese collegate;
  • controllanti;
  • imprese sottoposte al controllo delle controllanti.

Quest’ultimo dettaglio relativo alle c.d. imprese sorelle è stato introdotto dal D.Lgs. 139/2015 e quindi applicabile dai bilanci relativi agli esercizi che decorrono dal 1° gennaio 2016 (ma andrà rivisto anche il bilancio 2015 ai fini comparativi).

Come precisato dalla bozza dell’OIC 12, nella voce C.15) vanno pertanto classificati:

  • i dividendi su partecipazioni, al lordo delle eventuali ritenute;
  • le plusvalenze da alienazione (compresa la permuta) di partecipazioni iscritte sia nell’attivo immobilizzato che nell’attivo circolante. L’abolizione della sezione straordinaria del conto economico fa sì che tutte le plusvalenze derivanti dall’alienazione di partecipazioni vengano ora classificate nell’ambito di tale voce, anche le plusvalenze derivanti dalla cessione di parte significativa delle partecipazioni detenute, un tempo classificate nell’area straordinaria;
  • i ricavi da vendita di warrants e di diritti di opzione su titoli partecipativi;
  • gli utili distribuiti da joint venture e consorzi;
  • gli eventuali utili in natura distribuiti da imprese partecipate, anche in sede di liquidazione;
  • le plusvalenze derivanti dalla cessione di azioni della società controllante.

Per quanto riguarda i dividendi su partecipazioni, essi vanno rilevati secondo il principio di competenza economica nel momento nel quale, in conseguenza della delibera assunta dall’assemblea dei soci della società partecipata di distribuire l’utile o le riserve, sorge il diritto alla riscossione da parte della società partecipante.

Il dividendo va inoltre rilevato come provento finanziario indipendentemente dalla natura delle eventuali riserve oggetto di distribuzione, e quindi sia nel caso siano riserve di utili che di capitale.

Di conseguenza, ipotizzando la società Alfa che in sede di approvazione del bilancio 2015 abbia deliberato la distribuzione dell’utile con l’assemblea tenutasi in data 28 aprile 2016, la società Beta, detentrice di una partecipazione di controllo in Alfa, iscriverà nel bilancio 2016 il relativo dividendo nella voce C.15 del conto economico.

Nell’ipotesi in cui, entro la chiusura del bilancio 2016, i dividendi non siano incassati, poiché dal punto di vista fiscale i dividendi corrisposti da soggetti IRES ad altri soggetti IRES sono esclusi da tassazione nella misura del 95% e la tassazione avviene secondo il principio di cassa, essi non concorreranno a formare il reddito imponibile relativo all’esercizio 2016, ma genereranno una variazione in diminuzione nel modello Unico.

Dal punto di vista civilistico, si verificherà pertanto una differenza temporanea tra risultato civilistico e reddito fiscale, con la necessità di rilevare nell’esercizio di contabilizzazione del dividendo le imposte differite per la parte di dividendo assoggettato a tassazione: imposte differite che saranno rigirate nell’esercizio di incasso del provento.

L’attuale bozza dell’OIC 21 precisa inoltre, senza mutamenti rispetto alla versione 2014, che la società partecipante deve verificare se, a seguito della distribuzione, il valore recuperabile della partecipazione non sia diminuito al punto tale da rendere necessaria la rilevazione di una perdita di valore.

Le partecipazioni iscritte tra le immobilizzazioni finanziarie vanno infatti iscritte al costo rilevato al momento dell’iscrizione iniziale, costo che non può essere mantenuto, in conformità a quanto dispone l’articolo 2426, numero 3), codice civile, se la partecipazione alla data di chiusura dell’esercizio risulta durevolmente di valore inferiore al valore di costo.

La perdita durevole di valore è determinata confrontando il valore di iscrizione in bilancio della partecipazione con il suo valore recuperabile, determinato in base ai benefici futuri che si prevede affluiranno all’economia della partecipante. E tra gli indicatori di perdita l’OIC 21 cita anche il caso di una distribuzione di dividendi che abbia comportato una diminuzione del valore economico della partecipata al di sotto del valore di iscrizione della stessa nell’attivo.

È importante evidenziare come la bozza dell’OIC 21, di cui si attende il licenziamento definitivo, ha eliminato la possibilità prevista dalla versione 2014 dell’OIC 21 di permettere, nel caso di dividendi da società controllate, la loro rilevazione anticipata all’esercizio di maturazione dei relativi utili se il bilancio era stato approvato dall’organo amministrativo della controllata anteriormente alla data di approvazione del bilancio da parte dell’organo amministrativo della controllante.

Inoltre, le società controllanti potevano, a condizione che avessero pieno dominio sull’assemblea della controllata, anticipare la rilevazione del dividendo anche sulla base della proposta di distribuzione deliberata dagli amministratori della controllata, antecedente alla decisione degli amministratori della controllante che approvano il progetto di bilancio.

L’eliminazione di questa possibilità a decorrere dal bilancio 2016, comporta per la società Beta, nell’ipotesi in cui abbia rilevato già il dividendo di Alfa nel 2015, l’impossibilitò di iscrivere alcun provento da partecipazione di Alfa nel bilancio: quello deliberato con l’assemblea del 2016 è già stato inserito nel bilancio 2015, quello che sarà eventualmente deliberato con l’assemblea di approvazione del bilancio 2016 nel corso del 2017, potrà concorrere esclusivamente alla formazione del risultato dell’esercizio 2017.

Le società holding che utilizzavano la contabilizzazione consentita dal vecchio OIC 21 per tutti i dividendi delle società controllate si troveranno pertanto con un bilancio 2016 assolutamente ridimensionato.

Fonte Euroconference Edizione di martedì 15 novembre 2016

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Onere della prova nelle contestazioni di antieconomicità

Con la sentenza n. 21869 del 28 ottobre 2016, la Quinta Sezione Civile della Cassazione è intervenuta a chiarire la portata della contestazione di condotta antieconomica precisando che l’Amministrazione finanziaria può procedere con la stessa solo in presenza di indizi gravi, precisi e concordanti che dimostrino l’inattendibilità della condotta medesima.

Nel caso specifico, il curatore del fallimento di una S.r.l. aveva presentato una richiesta di rimborso di un credito IVA a seguito della quale l’Agenzia delle Entrate, una volta effettuato un controllo sui documenti contabili, aveva rilevato la genericità dell’indicazione delle rimanenze delle materie prime e delle merci effettuata dal curatore.

Sulla base di tale genericità, facendo leva sull’incongruenza – reiterata nel tempo – della redditività, l’Ufficio aveva quindi ravvisato il presupposto per procedere ad accertamento analitico-induttivo, ex articolo 39, comma 1, lett. d) del D.P.R. 600/1973 e determinato maggiori ricavi rispetto a quelli dichiarati dal curatore. Quest’ultimo aveva quindi impugnato l’avviso di accertamento notificato dall’Agenzia con cui la medesima aveva rettificato il reddito d’impresa, ottenendone l’annullamento dalla Commissione Tributaria Provinciale.

La Commissione regionale invocata in secondo grado aveva poi respinto l’appello dell’Ufficio, rimarcando la certezza dei dati indicati a titolo di rimanenze ed osservando come la scarsa redditività trovasse spiegazione nel fatto che la società fosse stata dichiarata fallita qualche anno dopo.

Investita della questione su ricorso dell’Agenzia delle entrate, la Corte di Cassazione ha innanzitutto riconosciuto come la corretta e specifica indicazione delle rimanenze fosse di  precipuo rilievo poiché, in base al principio di continuità dei valori di bilancio ex articolo 59 del D.P.R. 917/1986, le rimanenze finali di un esercizio costituiscono esistenze iniziali di quello successivo e le reciproche variazioni concorrono a formare il reddito di esercizio (Cass. 17298/2014 e n.  590/2015).

Ciò premesso, se è pur vero però che la generica indicazione delle rimanenze è, per conseguenza, idonea a legittimare l’accertamento analitico-induttivo previsto dal citato articolo 39, comma 1, lett. d) del D.P.R. 600/1973 perché in grado di far dubitare della completezza e dell’attendibilità della contabilità esaminata, è anche vero che “le rimanenze iniziali e finali, così come risultano dal bilancio di esercizio acquisito agli atti, rappresentano un dato certo”.

Così facendo, l’accertamento effettuato dall’Ufficio nel caso specifico trovava la sua ragione d’essere nelle sole  caratteristiche di antieconomicità della condotta imprenditoriale chiamata ad integrare le presunzioni gravi, precise e concordanti idonee a sostenere la pretesa impositiva accertata induttivamente.

A tal proposito, richiamando una recente pronuncia (Cass. n. 13468/2015), la Suprema Corte ha nondimeno ribadito come la contestazione riguardante l'”antieconomicità” del comportamento imprenditoriale richieda da parte dell’Amministrazione finanziaria la dimostrazione dell’inattendibilità della condotta.

Tale inattendibilità, a detta della Cassazione, “va vista in chiave diacronica, con la precisazione che la stima della redditività dell’impresa, che costituisce oggetto della valutazione di antieconomicità, è di norma affidata alla comparazione di più indici, tra i quali spiccano quello che fa leva sul rapporto fra il reddito operativo ed il capitale complessivamente investito nell’impresa e quello che punta sul rapporto fra reddito operativo e ricavi dell’impresa, che, in particolare, evidenzia la percentuale del volume di affari”.

La Quinta sezione ha poi rimarcato come l’apprezzamento in ordine alla gravità, precisione e concordanza degli indizi posti a fondamento dell’accertamento compiuto con metodo presuntivo – nel nostro caso, in ordine all’antieconomicità della condotta – fosse relativo alla valutazione dei mezzi di prova e quindi rimesso in via esclusiva al giudice di merito (ex multis, Cass. n. 24437/2013 e n. 16743/2016).

Nel caso specifico, detto apprezzamento era stato svolto dal giudice d’appello, il quale aveva escluso la decisività del dato offerto dall’Ufficio, “atteso che la società nell’anno 2005 è stata dichiarata fallita“, lasciando quindi emergere l’attendibilità dei dati emersi in relazione alla condotta della società, la quale, proprio in ragione della sua antieconomicità, aveva subito il fallimento.

Poiché pertanto, dietro lo schermo della violazione di legge, l’Ufficio mirava a sovvertire l’apprezzamento compiuto in sentenza, la Cassazione ha rigettato il ricorso dichiarando inammissibile il motivo ivi contenuto.

Fonte Euroconference Edizione di lunedì 14 novembre 2016

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Le spese di rappresentanza e gli omaggi

Anche quest’anno si è giunti al periodo dell’anno in cui le aziende devono decidere se e come omaggiare i propri clienti, fornitori dipendenti e terzi di un dono e/o di una cena natalizia.

Ai fini della corretta scelta occorre tenere a mente i limiti di deducibilità fiscale dei costi e di detraibilità dell’Iva.

In merito alle spese di rappresentanza (cui per ipotesi far rientrare le spese per una cena o una api-cena come è di moda oggi) occorre ricordare che a far data dallo scorso 1° gennaio 2016

l’articolo 108, secondo comma, del Tuir recita:

Le spese di rappresentanza sono deducibili nel periodo di imposta di sostenimento se rispondenti

ai requisiti di inerenza stabiliti con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, anche in funzione della natura e della destinazione delle stesse. Le spese del periodo precedente sono commisurate all’ammontare dei ricavi e proventi della gestione caratteristica dell’impresa risultanti dalla dichiarazione dei redditi relativa allo stesso periodo in misura pari:

1. all’1,5 per cento dei ricavi e altri proventi fino a euro 10 milioni;

2. allo 0,6 per cento dei ricavi e altri proventi per la parte eccedente euro 10 milioni e fino a

50 milioni;

3. allo 0,4 per cento dei ricavi e altri proventi per la parte eccedente euro 50 milioni

Sono comunque deducibili le spese relative a beni distribuiti gratuitamente di valore unitario non superiore a euro 50”.

L’inerenza si intende soddisfatta qualora le spese siano:

  • sostenute con finalità promozionali e di pubbliche relazioni;
  • ragionevoli in funzione dell’obiettivo di generare benefici economici;
  • coerenti con gli usi e le pratiche commerciali del settore.

Non è però sufficiente soddisfare il criterio dell’inerenza ma è necessario che le spese di rappresentanza siano anche congrue e la congruità andrà determinata rapportando:

  • il totale delle spese imputate per competenza nell’esercizio;
  • con i ricavi e proventi della gestione caratteristica del periodo di imposta in cui sono sostenute (come risultanti da dichiarazione).

Superato il limite di deducibilità così stabilito, la restante parte delle spese sono da intendersi indeducibili con necessità di operare apposita variazione in aumento in dichiarazione dei redditi.

In merito all’Iva il D.P.R. 633/1972 afferma che:

non è ammessa la detrazione dell’IVA relativa alle spese di rappresentanza, tranne quelle sostenute per l’acquisto di beni di costo unitario non superiore ad euro 50.”

Da cui:

  • spese di rappresentanza di importo non superiore a 50 euro detraibilità del 100%
  • spese di rappresentanza superiori ad euro 50 indetraibilità del 100%

Quanto agli omaggi soffermiamoci su quelli destinati alla clientela.

Se l’azienda compra un bene destinato ad omaggio, all’atto dell’acquisto, unitamente all’uscita finanziaria di cassa o banca, rileverà la voce di conto economico accesa agli omaggi facendo sempre attenzione alla detraibilità dell’Iva.

Se invece il bene omaggiato formasse oggetto della produzione propria, si dovrà innanzi tutto rilevare la cessione dell’omaggio che può avvenire con emissione di fattura per singola operazione, ovvero in autofattura.

Quindi occorrerà distinguere a seconda che il cedente applichi o meno la rivalsa dell’Iva, in tal caso in fattura occorrerà scrivere alternativamente:

… con obbligo di rivalsa ai sensi dell’articolo 18 D.P.R. 633/1972;

… senza obbligo di rivalsa ai sensi dell’articolo 18 D.P.R. 633/1972.

Fonte: Euroconference Edizione di sabato 12 novembre 2016

 

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Bonus investimenti nel Mezzogiorno: istruzioni per l’accesso

Con la circolare n. 34/E del 3 agosto 2016, l’Agenzia delle entrate ha fornito le istruzioni applicative dell’agevolazione bonus investimenti nel Mezzogiorno, introdotta dalla legge di Stabilità 2016 (legge n. 208/2015, articolo 1, commi da 98 a 108), valida per gli investimenti effettuati dal 1° gennaio 2016 al 31 dicembre 2019, a favore delle imprese che acquistano beni strumentali nuovi, facenti parte di un progetto di investimento iniziale e destinati a strutture produttive ubicate nelle zone assistite delle regioni Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Molise, Sardegna e Abruzzo.

Possono beneficiare del credito d’imposta tutti i soggetti titolari di reddito di impresa, a prescindere dalla forma giuridica assunta e dalla dimensione. In particolare sono ammesse le piccole, le medie e le grandi imprese, ai sensi della raccomandazione della Commissione UE n.2003/361/CE. La circolare n. 34/E/2016 ha chiarito che l’agevolazione spetta anche agli enti non commerciali con riferimento all’attività commerciale eventualmente esercitata.

Come espressamente previsto dalla norma, l’agevolazione non si applica ai soggetti che operano in determinati settori: industria siderurgica, carbonifera, della costruzione navale, delle fibre sintetiche, dei trasporti e delle relative infrastrutture, della produzione e della distribuzione di energia e delle infrastrutture energetiche, nonché ai settori creditizio, finanziario e assicurativo.

Al riguardo, l’Agenzia delle entrate specifica che ai fini dell’individuazione del settore di appartenenza si tiene conto del codice attività, incluso nella tabella ATECO 2007, indicato nel modello di comunicazione approvato con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate del 24 marzo 2016, riferibile alla struttura produttiva presso la quale è realizzato l’investimento oggetto dell’agevolazione richiesta. Inoltre, sono escluse le imprese in difficoltà di cui alla comunicazione della Commissione europea 2014/C 249/01 del 31 luglio 2014.

La circolare n. 34/E/2016 specifica e mette in risalto la definizione di struttura produttiva intesa come singola unità locale o stabilimento ubicato nelle aree territoriali ammissibili in cui il beneficiario esercita l’attività d’impresa.

Il credito d’imposta spetta per l’acquisizione di beni strumentali nuovi, facenti parte di un progetto di investimento iniziale, destinati a strutture produttive ubicate nelle zone assistite della Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia, ammissibili alle deroghe previste dall’articolo 107, paragrafo 3, lettera a), del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, e nelle zone assistite delle regioni Molise, Sardegna e Abruzzo ammissibili alle deroghe previste dall’articolo 107, paragrafo 3, lettera c), del Trattato di funzionamento dell’Unione europea (TFUE).

In merito, la circolare chiarisce che le grandi imprese che effettuano investimenti in Molise, Sardegna e Abruzzo, esclusivamente nelle zone ammissibili agli aiuti a finalità regionale ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 3 lett. c), del TFUE, possono accedere al credito solo a fronte di un “investimento iniziale a favore di una nuova attività economica nella zona interessata”.

Sono agevolabili gli investimenti relativi all’acquisto, anche mediante contratto di locazione finanziaria, di macchinari, impianti e attrezzature varie relativi alla creazione di un nuovo stabilimento, all’ampliamento della capacità di uno stabilimento esistente, alla diversificazione della produzione di uno stabilimento per ottenere prodotti mai fabbricati precedentemente e a un cambiamento fondamentale del processo produttivo complessivo di uno stabilimento esistente.

I beni oggetto di investimento devono essere strumentali. I beni inoltre devono essere nuovi. Sono quindi esclusi tutti i beni già utilizzati indipendentemente dal fatto che il cedente non sia né il produttore né il rivenditore. Può essere oggetto dell’agevolazione in esame anche il bene che viene esposto in show room ed utilizzato esclusivamente dal rivenditore al solo scopo dimostrativo.

Il credito d’imposta è commisurato alla quota del costo complessivo dei beni agevolabili, eccedente gli ammortamenti dedotti nel periodo d’imposta, riguardanti le medesime categorie dei beni d’investimento della stessa struttura produttiva, ad esclusione degli ammortamenti dei beni che formano oggetto dell’investimento agevolato. L’ammontare dell’investimento (lordo) ammissibile all’agevolazione è dato, per ciascun periodo agevolato e per ciascuna struttura produttiva, dal costo complessivo delle acquisizioni di macchinari, impianti e attrezzature varie ammissibili.

Ai fini della determinazione dell’investimento netto su cui calcolare il credito d’imposta, l’investimento lordo deve essere decurtato, come detto, degli ammortamenti fiscali dedotti nel periodo di imposta ad eccezione però di quelli dedotti in applicazione del super ammortamento, relativi ai medesimi beni appartenenti alla struttura produttiva nella quale si effettua il nuovo investimento.

Per gli investimenti realizzati mediante contratti di locazione finanziaria, rileva, ai fini del calcolo dell’agevolazione, il costo sostenuto dal locatore per l’acquisto dei beni. Quindi, come espressamente previsto dalla norma, il costo non comprende le eventuali spese di manutenzione. Alcuna importanza può essere attribuito al prezzo di riscatto ed al canone periodico pagato dall’impresa.

Al valore dell’investimento netto agevolabile, per la determinazione della misura del credito spettante, devono essere applicate le percentuali di aiuto previste dalla norma pari al 20% per le piccole imprese, al 15% per le medie imprese e al 10% per le grandi imprese.

Le imprese interessate devono presentare, a partire dal 30 giugno 2016 e fino al 31 dicembre 2019, esclusivamente in via telematica, la comunicazione per la fruizione del credito d’imposta per gli investimenti nel mezzogiorno, approvata con provvedimento del Direttore dell’Agenzia del 24 marzo 2016.

Il beneficiario può utilizzare il credito solo in compensazione, presentando il modello di pagamento F24 esclusivamente tramite il servizio telematico Entratel o Fisconline, pena il rifiuto dell’operazione di versamento. Il codice tributo da utilizzare allo scopo è il “6869”, istituito con la recente risoluzione n. 51/E/2016.

L’ammontare del credito utilizzato in compensazione, anche in più soluzioni, non può eccedere l’importo risultante dalla ricevuta dell’Agenzia delle entrate, pena lo scarto del modello F24.

Nella circolare n. 34/E/2016, l’Agenzia specifica che i beneficiari potranno utilizzare esclusivamente il credito d’imposta maturato, ossia il credito d’imposta concernente gli investimenti già realizzati al momento della compensazione.

Fonte Euroconference  giovedì 25 agosto 2016

 

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La verifica del superamento delle soglie di punibilità

Con la sentenza n. 27815 del 6.07.2016, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione si è pronunciata in merito al reato di omessa dichiarazione ex articolo 5 del D.Lgs. 74/2000, ritenendo legittima la verifica del superamento della soglia di punibilità qualora il Giudice abbia fatto ricorso ai risultati dell’accertamento induttivo dell’imponibile e questi ultimi siano stati fatti oggetto di comparazione con i dati obiettivi ricavati dagli accertamenti bancari.

Nel caso di specie, la Corte di appello di Venezia, a seguito di appello proposto dall’imputato, aveva confermato la sentenza del Tribunale di Vicenza che aveva condannato alla pena di un anno di reclusione ed alle conseguenti pene accessorie un contribuente che aveva omesso di presentare la dichiarazione.

Avverso tale sentenza aveva quindi proposto ricorso in Cassazione l’imputato argomentando come la Corte territoriale avesse, da un lato, fondato l’affermazione di responsabilità ed il calcolo dell’imposta evasa solo sulla base di criteri induttivi e di presunzioni tributarie e, dall’altro, ricostruito il volume dei ricavi tramite parametri di natura meramente formale, senza accordare prevalenza al dato fattuale e reale.

A detta del contribuente, infatti, la determinazione del volume di affari non poteva essere desunta esclusivamente dall’emissione del documento fiscale prescindendo dall’incasso della fattura.

Per tali ragioni il medesimo aveva chiesto l’annullamento della sentenza impugnata.

Investita della questione, la Cassazione ha, innanzitutto, rilevato come la verifica del superamento della soglia di punibilità del reato di omessa dichiarazione – che, come noto, in forza del D.Lgs. 158/2015 è stata innalzata da 30.000 euro a 50.000 euro – spetti esclusivamente al giudice penale, il quale ha il compito di procedere all’accertamento e alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario (Cass. n. 21213/2008).

Per giurisprudenza consolidata della Cassazione, infatti, per accertare la penale responsabilità dell’imputato per omesse annotazioni obbligatorie ai fini delle imposte dirette e dell’IVA, il giudice può legittimamente basarsi sull’informativa della Guardia di Finanza che abbia fatto ricorso ad una verifica delle percentuali di ricarico attraverso un’indagine sui dati di mercato e ricorrere anche all’accertamento induttivo dell’imponibile quando la contabilità imposta dalla legge sia stata tenuta irregolarmente (Cass. n. 5786/2007).

Anche l’accertamento induttivo compiuto dagli uffici finanziari può, quindi, rappresentare un valido elemento di indagine” per stabilire, in sede penale, se vi sia stata evasione e se questa abbia raggiunto le soglie di punibilità previste dalla legge, “a condizione però che il Giudice non si limiti a constatarne l’esistenza e non faccia apodittico richiamo agli elementi in essi evidenziati, ma proceda a specifica autonoma valutazione degli elementi nello stesso descritti comparandoli con quelli eventualmente acquisiti “aliunde”” (ex multis, Cass. n. 40992/2013 e n. 2481/2011).

La Corte ha poi precisato come per imposta evasa debba intendersi l’intera imposta dovuta “da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio fiscalmente detraibili, in una prospettiva di prevalenza del dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento tributario” (cit. Cass. n. 21213/08).

Orbene, poiché nel caso specifico la Corte territoriale aveva accertato il superamento della soglia di punibilità non limitandosi meramente all’esame delle risultanze dell’accertamento induttivo dell’imponibile ma valutando tali circostanze autonomamente e comparandole con dati obiettivi ricavabili dagli accertamenti bancari (tra cui l’importo delle fatture emesse nei confronti dei clienti, i costi dell’attività di impresa, le movimentazioni e le operazioni extra conto), la terza Sezione penale ha ritenuto corretta ed immune da vizi la motivazione della sentenza emessa dalla Corte di Appello giacché in linea con i principi di diritto suesposti.

Sulla base di tali assunti, il ricorso è stato dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle Ammende.

Fonte Euroconference  lunedì 29 agosto 2016

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